Oggi è la giornata di consapevolezza del lutto perinatale, una giornata per non dimenticare il dolore di chi vive e ha vissuto una perdita in gravidanza.
Quest’articolo l’ho scritto esattamente dopo 10 giorni dal mio aborto, nell’agosto 2018. L’ho scritto per buttare nero su bianco il dolore che avevo dentro, perché ne sentivo il bisogno e per me è stato terapeutico. Non pensavo l’avrei mai pubblicato, ma penso sia arrivato il momento che le mie parole possano arrivare a voi e se in qualche modo saranno d’aiuto anche a solo uno/a di voi, allora ne sarà valsa la pena.
Agosto 2018
Ci sono fiori che nascono prematuramente e hanno bisogno di cure e di delicatezza, fiori che si schiudono improvvisamente o che seguono il ritmo secondo i tempi attesi, oppure fiori che nascono semplicemente più tardi.
E poi ci sono loro.
Quei fiori che ci lasciano prima ancora di poter crescere e nascere. Quei fiori che non possono essere né toccati, né visti. E che forse volano verso un nuovo giardino dove riposeranno per sempre.
Oggi vi parlo di una storia. Un pezzo di me, di noi.
A 8 settimane + 6 giorni ho perso il nostro bambino. Il nostro secondo figlio. E con esso ho perso tutto ciò che la mia mente e cuore aveva provato, pensato, atteso, sperato e progettato fino a quel momento.
Avrei tanto voluto raccontarvi tutt’altro in quest’estate calda e soleggiata e poter tra qualche mese farvi vedere la mia pancia e il mio sorriso da mamma bis. Orgogliosa e felice. Mai avrei pensato di scrivervi questo.
Avevo già in mente di parlarvi di tante attività da fare in estate, in spiaggia, con le conchiglie, i giochi, i libri e anche la nostra vacanza in Toscana che tanto ci è piaciuta. Avevo la lista scritta pronta. E’ qui accanto a me anche ora sulla scrivania. E resterà solo una semplice lista in un pezzo di carta.
Non ce la faccio. Nel bel mezzo della mia stagione preferita sono bloccata.
E ad un certo punto, mi sono detta che va bene così.
La cosa che mi viene spontanea da fare è raccontarvi questa parte di me, di noi.
La realtà, nuda e disarmante come l’ho vissuta io. Ne ho bisogno per continuare e spero con tutta me stessa che sia d’aiuto a tutte le mamme e i papà nel cuore che a causa di un aborto si ritrovano ad elaborare una perdita, un dolore acuto sconosciuto ed improvviso, uno stravolgimento. Dall’attesa alla fine di essa. E a vivere e a convivere con un periodo nuovo che mi viene da chiamare solo in un modo: lo spazio bianco.
E’ uno spazio in cui sei sopra una giostra emotiva che ruota in continuazione e non sai quando scenderai. Su e giù. Di continuo. Non sai se parlarne o se stare in silenzio. Non sai se essere razionale o se vivere emotivamente questo periodo. Ti trovi a far fronte a ciò che ti dice la gente. E devi farci i conti oltre al tuo carico. Perché ti senti dire di tutto. Disarmante quanto le persone possono essere insensibili e senza tatto. E poi c’è la vita che ti sbatte in faccia che si continua ad andare avanti e che è così, non puoi farci niente. E che per alcuni non è successo nulla di grave.
Così oltre al dolore, fisico ed emotivo, si aggiunge una sorta di incomprensione sociale.
E non è una bella abbinata, ve lo assicuro. Penso davvero sia il motivo perché una donna non si senta di dire a voce alta quello che le è successo. E in parte si possa sentire in colpa e certe volte perfino provare vergogna. Sembra quasi un tabù. Praticamente non se ne parla.
Un errore di produzione. Un evento da cancellare. Non c’è stato.
Ma assolutamente non è così.
Come scrive una mia cara collega e amica:
“Penso che ogni dolore abbia bisogno di rispetto, di essere ascoltato, vissuto e poi lasciato andare lentamente, non ignorato…”
Dedico le mie parole a te Alberto, mio compagno di vita e papà nel cuore. Che hai vissuto nel completo silenzio il tuo dolore. Io sono con te. Quando ti ho letto queste parole abbiamo pianto insieme e ci siamo stretti. Ancora più forti.
A te Nicola, il tuo sorriso e la tua vitalità se prima mi hanno destabilizzato e irritato… poi mi hanno salvato.
A tutti i papà e mamme nel cuore. Continuate a credere nella vita.
A tutte le donne che vivono un aborto spontaneo. Non siete sole. Parlate e descrivete il vostro dolore. Non provate vergogna. Non è colpa vostra. Spezzate il silenzio con la vostra voce. Aiuterà tutti ad essere più sensibili, consapevoli e gentili. Ma prima di tutto, aiuterete voi stesse.
Alle mie donne. Amiche prima di tutto. Mamme e non, compagne, colleghe, mogli, fidanzate, single. Donne. Che hanno combattuto e combattono per Amore. Che cadono e si rialzano mille e altre mille volte ancora con la loro dignità in mano. E che condividono la loro vita con la mia. Lacrime e gioie. Siete con me e io con voi.
A Elena in particolare. Il tuo ricordo, la tua esperienza, il tuo essermi vicina da così lontano è qualcosa che non si può descrivere. I nostri fiori sono nel cuore per sempre. Sarai una mamma eccezionale.
A me. Che di forza ne ho dovuta tirare fuori tanta.
A te .“L’amore ha molte forme, la vita ha scelto per te la luce”.
Questa è per Te.
LA NOSTRA STORIA
A luglio scopro di essere incinta e siamo immensamente felici e sorpresi. Questa seconda gravidanza si è fatta attendere, molto di più della prima. Alberto felice come non mai. “Speriamo sia femmina” si è lasciato sfuggire. (Anche con il primo sperava fosse così…ed è nato Nicola!).
Abbiamo aspettato qualche settimana prima di comunicarlo a tutti, così siamo partiti per le ferie con questo piccolo enorme segreto tra noi.
Avevamo bisogno di tempo per stare insieme. Abbiamo tirato troppo col lavoro e con gli impegni extra familiari e la vacanza, per quanto bellissima in posti incantevoli, ne ha risentito. O meglio, il nostro rapporto ne ha risentito. Ma ce ne accorgeremo solo dopo.
A Nicola non abbiamo detto niente. Ma non è servito. Lui lo sapeva già.
Un pomeriggio a bordo piscina, mentre ero seduta e mi guardavo la pancia fasciata dal mio costume rosso arriva lui. Mi mette le manine sopra e mi chiede con tutta la sua spontaneità: “Ma c’è un bambino qui dentro mamma?” Un attimo. L’occhio lucido sotto gli occhiali. Con lui non ho mai evitato la verità, non ne sento il bisogno. “Si amore, c’è un bambino piccolo piccolo”. E ancora mi chiede “Ma cosa sta facendo?”…ed io: “Non lo so di preciso, non posso vederlo, forse dorme o forse ci sta ascoltando. Ora è piccolo ma col tempo crescerà”. Soddisfatto della risposta, come se non fosse accaduto nulla tra noi, si rituffa in acqua e continua a giocare, mentre io mi accarezzo la pancia e mi asciugo una lacrima. La felicità per me era tutta lì. In quel momento.
Alberto si è stupito e non ci credeva. Dopo allora ne abbiamo parlato con tono neutro e sereno e ogni tanto Nicola se ne usciva con la sua frase: “Ma sai che qui dentro c’è un bambino?”. Tornati dal mare, poco prima che lo dicessi ai miei genitori… bè ci ha pensato direttamente lui. Loro increduli, pensavano di aver capito male!Che reazione diversa rispetto alla notizia della prima gravidanza, tutto un altro mondo!
Poco dopo l’abbiamo detto ai suoi di Alberto, ci hanno messo un po’ a mettere insieme il senso del contenuto della scatolina…un ciuccio e un bigliettino “Presto sarete nonni bis!”. Dopo l’incredulità, la gioia.
Mancavano esattamente 4 giorni alla super festa che avevamo organizzato per il mio compleanno e quello di Nicola. L’avremmo detto a tutti i nostri amici. Ero elettrizzata e felice. Ma la vita mi ha ricordato che non siamo noi a decidere della vita stessa. E che i progetti, le aspettative e il controllo possono crollare in un soffio.
Due giorni dopo ho perso il bambino.
Primo giorno. Un caldo asfissiante, una miriade di giri in macchina, commissioni varie e aria condizionata a manetta. Alla sera piccole perdite. Mi dico “Devo rallentare”.
Secondo giorno. Primi crampi al basso ventre, mi impongo di non alzare più Nicola in braccio (15 kg di vitalità pura). Ora di cena, Alberto nervoso post lavoro, Nicola pure e il troppo caldo. Alle 20 perdite rosso vivo. Mi blocco. Mi viene da piangere, ma mi trattengo. Arriva Nicola “E’ pronto mamma”. Io: “Chiama papà per favore”. Glielo ripeterò 5 volte. Mi guarda meglio, capisce. C’è qualcosa che non va. Corre. Lo chiama. Arriva. “Dobbiamo andare in ospedale. Subito”.
Quel subito durerà un’ora interminabile.
I miei genitori sono in vacanza in montagna, mia sorella al mare. Chiamiamo i suoi di Alberto. Sono fuori a cena. Sua mamma ascolta la voce di Alberto. Si precipita da noi. Arriva con i tacchi ed un vestito elegante. Strano come questi dettagli rimangano nella mente. Mi vede, tremo come una foglia. Non riesco a guardarla negli occhi. Mi abbraccia stretta stretta, come solo una mamma può fare. Un abbraccio vero, intenso. L’abbraccio che ricorderò per sempre. Scoppio a piangere. Nicola mi chiede cosa c’è. “La mamma deve andare in ospedale, ho mal di pancia, ma andrà bene. Tu puoi stare con la nonna”. Nicola sa che gli dico la verità. Mi guarda, annuisce, va in braccio alla nonna e ci saluta mentre ingoia un pezzo di pesce. Quella cena sarò tutta solo per lui.
Alberto non dice nulla. E’ un automa, prepara lo zaino per Nicola che dormirà dai nonni. Decide per noi. Prepara la macchina. Io prendo il fascicolo con tutti gli esami e lo stringo forte. In fondo, ci spero. Quella piccola luce di speranza mi accompagnerà per tutto il tragitto.
Non è stata una corsa all’ospedale. Non era necessario. Entrambi sapevamo che quella visita avrebbe potuto cambiare tutto. 20 minuti di silenzio tra noi. Io guardo fuori dal finestrino, è quasi buio, il caldo è un po’ calato ed una pioggia leggera bagna i vetri della macchina. Ripenso alle primi luci dell’alba dell’estate di 3 anni fa. Quando è nato Nicola. Stesso tragitto, stesso ospedale, stesso periodo, stessa pioggia lieve. Non sapevo cosa pensare. Così ho cercato di non pensare a niente e di non crearmi aspettative. Faticoso. Impossibile. Ripenso ad alcune storie di vita. A mia sorella con il terzo figlio, ha rischiato di perderlo all’inizio, ma è stato un falso allarme. Penso ad una mia cara amica lontana. 6 mesi fa ha perso il suo primo figlio in modo doloroso ed è stata ricoverata d’urgenza…quale sarà la mia storia?
Arriviamo. Parcheggia e in modo efficiente mi lascia di fronte al pronto soccorso. Entro. Aspetto il mio turno. Arriva Alberto. Tocca a me. Per la prima volta dico ad alta voce “Sono incinta di 8 settimane, ho perdite rosso vivo”. Rimango lucida, presente. L’infermiere di turno mi guarda, scrive, risponde ad un signore anziano che entra per informazioni cercando di passare avanti, lo invita ad uscire. Torna da me. Mi chiede nome e data di nascita. Mi trova nell’anagrafica. Mi chiede il polso e mi mette un braccialetto bianco. Come quando ho partorito. Conservo ancora quel braccialetto.
Saliamo in ginecologia. Suoniamo. Ci fanno entrare. Il corridoio è buio. Perfettamente pulito, silenzioso. Ci accomodiamo nella sala d’aspetto. Accediamo noi la luce. Ci sediamo. Aspettiamo 20 minuti. Dal corridoio ad un certo punto si sentono i rumori delle calzature sanitarie di qualcuno, si accendono le luci. Si affaccia una dottoressa minuta, ma decisa. Ci chiama e parte, la inseguiamo, lei è già a metà corridoio. Il pensiero è che sarà lei a darci la notizia che attendiamo. Ci sediamo, mi chiede alcune informazioni. Alberto è accanto a me. In silenzio, non dirà niente per tutta la visita. Le dico tutti i sintomi in modo dettagliato e preciso, mi ascolta. Capisco che lei un’idea se l’è già fatta. Abbassa lo sguardo.
Ed eccomi lì. Mi sdraio. L’ecografia che aspettavamo. Mi gira lo schermo e comincia a farmi vedere e a spiegarmi. Alberto rimane al suo posto.
La dott.ssa si ferma, scruta e mi dice subito “Il sacco c’è, ma è troppo piccolo rispetto alle settimane in cui è in gravidanza. C’è qualcosa dentro ma i contorni sono molto sfumati, non so. Non posso fare una diagnosi precisa. Potrebbe essere una gravidanza partita in ritardo, oppure un principio di aborto”. Con un tono professionale, ma umano. Gentile, ma deciso. Capisco di nuovo che una diagnosi in testa lei ce l’ha. Annuisco. Mi dice di non far nulla, di aspettare qualche giorno e di rifare l’ecografia per vedere se cresce. Annuisco di nuovo.
Prima di alzarmi prendo coraggio e glielo chiedo. Non ce la faccio. La parte razionale di me è più forte e vuole sapere, non posso aspettare. Mi risponde: “Secondo me, secondo la mia esperienza, l’ecografia e i suoi sintomi…è probabilmente un aborto in corso, ma aspettiamo. Torni solo se ha crampi forti o un emorragia”. Annuisco per la terza volta. Usciamo inermi e soli.
Noi due in corridoio nuovamente, la borsa che pesa un macigno, il corpo che trema, il cuore che pulsa, gli occhi gonfi. E scoppio in lacrime tra le braccia di Alberto. Mi aiuta, mi conforta e non so come arriviamo alla macchina.
Quella luce di speranza si è affievolita, ma c’è.
Ma quella notte stessa si è spenta del tutto.
No, non è stato semplice e si, è stato doloroso. Inutile nasconderlo. Per quello che il mio corpo ha provato, per quello che i miei occhi hanno visto e per lo shock psico-emotivo che è stato. Come mi ha scritto una mia cara amica che ha vissuto la stessa esperienza:
“Mi sono resa conto che un aborto segna molto di più di quello che trovi scritto in tutte le pagine web o di quello che ti dicono i dottori, è un evento stressante che ti porti avanti per un po’, è tutto lo shock che hai subito in breve tempo. E si, cara Roby, ora hai bisogno di dolcezza e di tempo”.
Vi dico solo che Alberto ed io non sapevamo come comportarci, abbiamo capito che era successo e basta.
I dettagli di quella notte sono tanti.
Alberto che si sveglia al suono dei miei singhiozzi e resta stravolto.
l cane, il nostro piccolo cucciolo di 6 mesi, non viene mai nella zona notte…è rimasto tutto il tempo disteso accanto al letto. Accanto a me. Tuttora è la mia ombra. Mentre scrivo è qui sotto la mia scrivania.
Il pianto. Il tremore. I sudori freddi. Lo sconvolgimento. Il fiume di rosso. Il dolore.
Torniamo in ospedale per la sentenza. Il silenzio è la colonna sonora di quei due viaggi. Un’altra dottoressa. Giovane, gentile ma anche lei ferma e professionale. Mi dice semplicemente guardandomi negli occhi “Mi dispiace, le confermo che la gravidanza si è conclusa”.
Annuisco come un automa. Lo sapevo già. Ma quelle parole mi entrano dentro. Il cuore è in arresto. Il corpo anestetizzato. Gli occhi fermi. La voce assente. La pancia vuota. La mente piena, confusa.
Ringraziamo e di nuovo scoppio a piangere in corridoio. Il nostro limbo. Alberto è forte, mi stringe, mi sorregge e non so come arriviamo dai suoi a prendere Nicola. Nel frattempo avviso mia mamma che è in vacanza. Avviso le mie amiche più care. Ho mandato anche un audio ad alcune di loro. Ancora oggi non ho il coraggio di riascoltarlo.
Nel pomeriggio Alberto torna al lavoro, lo rassicuro, resto io a casa con il piccolo. In casa due idraulici che stanno dalla mattina sistemando il bagno. Tutto ok. Ce la faccio.
Mi metto nel mio studio a casa a lavorare al computer. Come se nulla fosse. la mia stanza. La mia zona di comfort.
Nicola dà il peggio di sé, è nervoso, non dorme e la sua vitalità, la sua irrequietezza da bambino di 3 anni, le sue richieste, il suo chiamarmi in continuazione, le sue urla, i suoi capricci mi fanno scoppiare a piangere e si è trasformato nel più terribile dei pomeriggi con lui. Mi sono sentita una madre pessima e una donna sola a vivere un dolore più grande di quello che pensavo di sopportare.
Vengono in aiuto di corsa (letteralmente) le mie amiche, il parcheggio a S di Alice davanti a casa ce l’ho ancora in mente. Mi abbracciano, mi ascoltano. Saliamo in macchina per un tour della città. Lo ricorderò a vita questo tour. Come un fiume in piena le mie parole escono e le sovrastano. Mi ascoltano. Sono lì per me. Nicola nel seggiolone dietro che dorme. Sfinito.
Viene a trovarmi anche la mamma di Alberto, sarà lei la mia mamma in questi giorni.
Alla sera con Alberto mi metto a piangere per ogni voce alzata di troppo, all’ennesimo capriccio di Nicola e al suono del tagliaerba acceso all’improvviso mi rendo conto di essere spaventata a morte e di essere letteralmente sotto shock. Lo so può far ridere. Ho capito di aver bisogno d’aiuto e di non potercela fare da sola.
Dopo la difficile messa a letto del piccolo comincia la discussione con Alberto. Ho tirato fuori la tristezza, la delusione e la rabbia.
Abbiamo parlato, urlato, discusso, pianto (io), deciso, organizzato, ci siamo confrontati, messi in discussione, urlato di nuovo e pianto ancora di più (sempre io), fino a quasi alle 3 di mattina. Sfiniti siamo andati a letto. Ma di questo avevamo bisogno come l’aria che respiriamo. Per noi.
I giorni successivi sono stati confusi, ma per fortuna il mio corpo ha cominciato a stare meglio.
Il resto lo sto vivendo giorno dopo giorno, affrontando i momenti buoni e quelli meno. Cercando di cogliere ciò che mi fa stare bene, di stare poco da sola e di farmi aiutare con Nicola.
Dal canto suo, Nicola ha avuto delle regressioni subito dopo sopratutto nel comportamento, ma che ha superato, grazie anche alla ritrovata complicità, alle routine e alle semplici regole che abbiamo ripreso a rispettare. Tutti e tre.
Ho capito che mi fa stare parlarne, stare all’aria aperta circondata nella natura, abbracciare Nicola, sorridere per le cose semplici, stare con i miei cari amici e parlare parlare parlare con Alberto. Ho tralasciato il Blog. Ho scritto tanto, ma è tutto lì in bozza, in attesa.
Ho avuto bisogno di vita vera. Di sentire la realtà addosso. Di allontanarmi dalla vita social. Ho scritto tanto, pubblicato poco.
Abbiamo veramente dovuto rimettere in discussione tanto ed affrontare tutto questo insieme. Il dolore ha rischiato di dividerci. L’amore, il tempo e le parole ci stanno aiutando a ritrovarci. E lo fanno anche ora. Passo dopo passo.
Sono così tanti i momenti belli della mia vita che è la vita stessa che mi sta aiutando e che mi ricorda quanto sono fortunata. Cerco le cose che mi fanno stare bene e continuerò a farlo. Ho fiducia.
Ieri notte ho guardato le stelle e una lacrima è scesa.
“Fai buon viaggio bambino mio, sarai sempre parte di noi”.
La tua mamma
A voi. Vi dono le mie parole.
Abbiatene cura e rispetto. Ma soprattutto Amore.
Parole di mamma